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Crollo Diga di Molare - 90 anni fa

di Federico Borsari - 13 Febbraio 2025


Nell'anno 1985 avevamo scritto un articolo in occasione del cinquantesimo anniversario del crollo della "Diga di Molare" (Ortiglieto).
Fummo i primi in assoluto ad affrontare un argomento molto "delicato" per la nostra città ed a descrivere, dopo mezzo secolo, quello che accadde il 13 Agosto 1935. Nessuno mai, prima di allora, aveva avuto il coraggio di riportare, ufficialmente ed a mezzo stampa, alla memoria degli Ovadesi una tragedia che causò centoundici morti e di cui tutti conservavano un ricordo tramandato dai parenti ed ancora oggi testimoniato dalle tombe dei caduti nel nostro Cimitero.
Dopo di noi, nei decenni seguenti e forse prendendo spunto da quell'articolo, l'argomento fu "ripreso" più volte e trattato da molte persone che si dedicarono ad una lodevole attività di "ricordo" sia mediante libri, pubblicazioni che siti internet di cui uno, in particolare, riteniamo sia assolutamente fondamentale per tutti coloro che intendono scoprire (o ri-scoprire) tutte le caratteristiche di un avvenimento che, per il numero di vittime, mette il crollo della diga di Molare al terzo posto della tragica classifica dei disastri causati dagli impianti idroelettrici italiani dopo il Vajont (nel 1963 con 1917 morti) ed il Gleno (nel 1923 con 317 vittime). Tale sito internet, realizzato dal Geologo Dott. Vittorio Bonaria nel 2005, viene tuttora costantemente aggiornato ed ancora oggi rappresenta, a nostro parere, la fonte più completa di informazioni in merito. Vi consigliamo caldamente di andarlo a visitare; lo trovate qui: http://molare.net/.
A seguito delle diverse pubblicazioni apparse anche a livello nazionale, la tragedia di Molare ha attirato l'attenzione di molti addetti ai lavori ed "appassionati" degli impianti idroelettrici e delle loro problematiche; nei decenni successivi molti sono stati (e lo sono ancora) coloro che si sono recati sul luogo della tragedia (la diga principale è ancora esistente) e da qualche tempo, con l'avvento della possibilità di "fare video" con attrezzature poco ingombranti (come gli smartphones), si sono moltiplicate le pubblicazioni di filmati effettuati "in corpore vili", cioè sia all'esterno che "dentro" la vecchia diga. Molti di questi video, che trovate ad esempio su Youtube impostando una semplice ricerca con le parole "diga di Molare", sono abbastanza superficiali e poco curati; alcuni, invece, girati da persone professionalmente molto preparate e competenti, sono dei veri e propri "documentari" in cui la storia della diga e degli avvenimenti del 1935 viene illustrata con precisione ed accuratezza.
Negli anni passati, presso la diga si sono svolte anche cerimonie di ricordo e di commemorazione in occasione dei vari anniversari e la vecchia diga è tutt'oggi méta di escursioni sia da parte di persone del luogo (in special modo Molaresi ed Ovadesi) che di "foresti" che, anche da lontane regioni d'Italia, vengono a visitare ciò che resta di un impianto idroelettrico che, quando fu progettato, si prospettava come uno dei più "moderni" dell'epoca e che invece, per bassi motivi di convenienza economica, si rivelò fatale causando morte e distruzione per l'intera valle del torrente Orba.

Stanti così le cose (tutto è ormai stato detto, scritto, filmato ed illustrato), che bisogno c'è, da parte nostra, oggi, di scrivere un nuovo articolo in merito?
Lo facciamo per un paio di motivi. Il primo è che quest'anno è il novantesimo anniversario del crollo e, giocoforza, non esistono più testimoni oculari viventi del fatto ed anche il cosidetto "figlio della diga" (il bambino che nacque in Ovada quel giorno) ci ha lasciati da qualche anno. Il ricordo di quella tragedia si sta affievolendo e sempre meno sono gli Ovadesi che possono vantare di averne sentito il racconto dai loro genitori e nonni e coloro che lo hanno ascoltato lo stanno dimenticando. E' pertanto abbastanza sconfortante dover ammettere che il ricordo del crollo della Diga di Molare viene perpetuato più da persone che provengono da altre Regioni italiane piuttosto che dagli stessi Ovadesi. La memoria umana è labile e, come per tutte le cose del Mondo, bisogna alimentarla e sollecitarla sempre per non dimenticare e per non ripetere gli errori del passato.
Il secondo motivo è che quest'anno il Gruppo FAI (Fondo Ambiente Italiano) di Ovada propone la Valle dell'Orba come "Luogo del Cuore"; tale iniziativa, oltre a valorizzare le peculiarità naturalistiche del nostro torrente, riporta -giustamente- all'attualità anche la tragedia del 13 Agosto 1935. Un nostro articolo in merito, forse, potrà servire anche allo scopo.
Ovviamente, non riproporremo quanto scritto quarant'anni fa (l'articolo lo trovate su di un'altra pagina di questo sito). Cercheremo di fornire, invece, qualche informazione in più "a latere" dell'argomento e che possa essere utile per "inquadrare" meglio, sia storicamente che tecnicamente, l'argomento.

L'Elettricità Industriale

Nell'ultimo ventennio dell'Ottocento la grande rivoluzione, che nel giro di un paio di decenni avrebbe cambiato il volto del Mondo, fu l'elettricità "industriale".
L'elettricità industriale, dopo un paio di decenni a livello "pionieristico", era diventata la forza motrice che avrebbe sostituito gli antichi metodi per muovere le macchine delle fabbriche, illuminato le città e portato notevole benessere. Se le "pile" elettriche (inventate nel 1799 da Volta e che per produrre deboli correnti elettriche continue utilizzavano reazioni chimiche) erano state la scintilla primordiale che aveva aperto la strada verso nuovi orizzonti, il grande salto si ebbe quando si scoperse che un motore elettrico, invertendone il funzionamento, produceva esso stesso corrente elettrica (se diamo corrente ad un motore esso gira; se lo facciamo girare senza dargli corrente, la produce). Fu Pacinotti, nel 1869, ad "inventare" la "dinamo", cioè quel dispositivo che, ruotando mosso da una forza motrice esterna (ad esempio una macchina a vapore), produceva elettricità in grande quantità.
Ebbe così inizio l'epopea della "corrente industriale", che nei primi anni veniva prodotta da grandi "dinamo" (che producevano corrente continua) unite ad "alternatori", cioè dispositivi che trasformavano la corrente continua in "alternata" (quella che usiamo normalmente), che poi furono sostituite dai cosidetti "generatori", che erano (e sono tuttora) in grado di produrre fin dall'origine la corrente alternata.

Il grande "business" dell'elettricità fu, ovviamente, colto dai grandi Paesi Europei che a quell'epoca detenevano il primato dell'industrializzazione e fu proprio in quegli ultimi decenni dell'Ottocento che nacquero le prime "multinazionali" dell'elettricità che sorsero soprattutto in Francia, Germania ed Inghilterra.
L'Italia, nazione giovane (aveva appena vent'anni) ed ancora ben lontana da un'unità sociale e da una solidità economica che avrebbe raggiunto solo dopo molti decenni, era, per forza di cose, "terra di conquista" per queste industrie europee.
Bisogna infatti sottolineare che, in quell'epoca e fino agli Anni Trenta del Novecento, in Italia lo Stato, in termini di "servizi pubblici" non faceva assolutamente niente (e non aveva le possibilità economiche per fare alcunché). Tutto quello che noi oggi siamo abituati a ricevere dallo Stato (e dalle sue entità territoriali) come servizio pubblico (strade, ferrovie, telefoni, elettricità, sanità, ecc.) a quei tempi veniva fornito da ditte ed aziende private che, in un panorama di assoluta e completa "deregulation", operavano sia singolarmente che a livello di "lobbies" nell'ottica del maggior profitto.
Oggi una situazione simile sarebbe improponibile, ma allora l'Italia aveva bisogno dei privati, e furono proprio costoro che realizzarono per la "neonata" Italia la maggior parte delle ferrovie, delle strade, dei ponti, delle centrali elettriche, degli acquedotti e quant'altro.

In quegli anni i metodi per produrre la "corrente" industriale erano due: termoelettrico ed idroelettrico.
Il primo metodo, più comune (e lo è ancora adesso), era quello di far "girare" i generatori (dinamo ed alternatori) tramite macchine a vapore, che erano azionate (ed in molti Paesi del Mondo lo sono ancora adesso) dalla combustione del carbone.
Il secondo metodo, molto più conveniente, era quello di utilizzare la forza dell'acqua dei fiumi e dei torrenti per far girare delle turbine a loro volta collegate ai generatori. A differenza del carbone, l'acqua era -praticamente- gratis ed i costi di esercizio di un impianto idroelettrico erano (e lo sono ancora oggi) drasticamente inferiori e molto più convenienti. In pratica, si sostituiva all'acqua calda (vapore) l'acqua fredda e, per di più, se ne sfruttava anche la forza motrice naturale.
Alla fine dell'Ottocento, a causa dell'enorme aumento della domanda, i prezzi del carbone erano schizzati a livelli record e fu proprio per questo motivo che venne dato un grande incentivo, sia tecnico che gestionale, agli impianti idroelettrici. Fu così che proprio in Italia, che aveva (ed ha tuttora) caratteristiche orografiche molto favorevoli non riscontrabili negli altri Paesi Europei, le varie multinazionali europee dell'elettricità iniziarono la progettazione e la realizzazione di impianti idroelettrici di ogni dimensione.
Bisogna anche sottolineare che un bacino idroelettrico non ha solo la possibilità di produrre elettricità. In effetti, l'acqua utilizzata per far girare le turbine, se non viene "ributtata a fiume", può essere immessa in un acquedotto ed utilizzata anche per scopi potabili.
Per quanto riguarda la nostra trattazione, ci limiteremo a dire che una di queste multinazionali creò una sua "consociata" a Genova, oltre a diverse altre in Italia (queste società mantenevano uguale la loro denominazione, cambiando solo l'ambito territoriale di operatività (Forze Idrauliche del Cadore, Forze Idrauliche del Liri, ecc.)). La ditta genovese si chiamava "Forze Idrauliche della Liguria".

Forze Idrauliche Liguria


Sguinzagliati i suoi tecnici su tutto il territorio ligure (e nell'entroterra), la ditta trovò una decina di "locations" in cui si potevano realizzare impianti sia per uso idroelettrico che idropotabile. Tra questi siti c'era anche quello di Molare-Ortiglieto ed anche in questo caso la società fece predisporre un progetto, che fu redatto dall'Ing. Luigi Zunini che, oltre ad essere uno degli Amministratori della ditta, era un'autorità nel settore e che, essendo originario di Sassello, aveva un'ottima conoscenza del territorio.
Il primo progetto della diga, che prevedeva un utilizzo dell'acqua dell'invaso a soli fini idropotabili ma che fu poi "modificato" per renderlo anche utilizzabile per la produzione di elettricità a favore dei vari comuni della valle dell'Orba, fu redatto nel 1898 ed era di modeste dimensioni. Prevedeva un invaso (bacino/lago) di otto milioni di metri cubi d'acqua chiuso da una diga dell'altezza di 33 metri, un'erogazione di 1300 litri d'acqua al secondo ed una produzione di 1589 Hp di forza motrice.
Come per gli altri siti, la ditta chiese alle autorità competenti (allora erano le Prefetture) la "concessione" per realizzare l'impianto. La concessione fu rilasciata nel 1906 ma, a causa di contenziosi sorti con le amministrazioni locali per motivi di fringe benefits (costruzione di strade, realizzazione di ponti, ecc.), rimase ferma fino a che il progetto cambiò destinazione e, lasciato da parte il fine idropotabile, divenne interamente idroelettrico, anche perchè nel frattempo si era ultimata la linea ferroviaria Ovada-Alessandria (che era collegata con la Acqui-Genova) e già si stava ipotizzando di elettrificare le due ferrovie con la corrente elettrica dell'impianto (ma l'elettrificazione della linea ferroviaria avverrà solo nel 1929).
In questa situazione di "stallo" si arrivò fino al 1916, quando le cose cambiarono.

O.E.G. - Officine Elettriche Genovesi (1895-1963)

Abbiamo parlato delle multinazionali europee che alla fine dell'Ottocento cercavano sbocchi commerciali in Italia. Quello che è storicamente accertato è che a quell'epoca la città italiana che maggiormente attirava le loro attenzioni era Genova. Questo avveniva per via del suo porto, che a quell'epoca era il più attivo della nostra penisola e poteva vantare collegamenti stabili ed affidabili soprattutto con l'America (America Latina e Stati Uniti d'America). E' per questo motivo che in quel periodo a Genova troviamo innumerevoli attività commerciali e di import-export, sopratutto britanniche, che si dedicavano al commercio del bene allora più "prezioso", il carbone (oggi è il petrolio).
Tra queste multinazionali ce n'era una tedesca, la A.E.G. (Allgemeine Elektricitäts-Gesellschaft), che era stata fondata nel 1883 con il nome di D.E.G. (Deutsche Edison Gesellschaft) e che oggi appartiene al gruppo Daimler-Benz. Già dalla ragione sociale si intuisce di che cosa si occupava questa ditta: costruzione di impianti elettrici, centrali elettriche, materiale elettrico e quant'altro fosse collegato all'elettricità.
La A.E.G. era molto apprezzata in Germania (tra il 1884 ed il 1885 realizzò la prima centrale elettrica e l'illuminazione pubblica di Berlino) e nel giro di una decina d'anni divenne una delle principali industrie elettriche europee. Era ovvio e naturale che nelle sue mire espansionistiche commerciali entrasse quindi anche l'Italia e, appunto, la città target italiana che venne scelta fu, ovviamente, Genova dove, nel 1895, fondò la sua consociata italiana. Per la ragione sociale fu sufficiente cambiare una vocale dell'acronimo e furono così fondate le O.E.G. (Officine Elettriche Genovesi) che, per prima cosa, costruirono un'avveniristica centrale elettrica (a carbone, ovviamente) che era in grado di fornire energia elettrica a tutta la città.

La centrale termoelettrica di Genova era, per quei tempi, un vero e proprio "spettacolo" di tecnologia, in cui le O.E.G. impiegarono le allora più moderne tecnologie. Il complesso industriale fu realizzato sulle rive del Bisagno, in via Canevari, ed era una vera e propria "cittadella" dell'elettricità. Composto da diversi fabbricati (uffici, abitazioni dei dipendenti, sala caldaie, sala macchine, sala trasformatori, locali di servizio, magazzini, ecc.), il complesso era (ed è tuttora) veramente imponente. Dotata di ben cinque generatori,

Forze Idrauliche Liguria

azionati dal vapore prodotto da altrettante caldaie a carbone (che veniva fornito più volte al giorno tramite una ferrovia "dedicata" che passava sulla strada adiacente sotto gli sguardi compiaciuti ed orgogliosi dei passanti), la centrale di Genova fu sicuramente, a quell'epoca, la più grande e moderna d'Italia e la sua colossale ciminiera (ora non più esistente, da cui fuoriuscivano -giorno e notte- tonnellate di Anidride Carbonica, Ossido di Azoto, Ossido di Zolfo, particolato e metalli pesanti) la rendeva perfettamente individuabile anche da lontano.

Forze Idrauliche Liguria

Lo stesso luogo oggi (Google Maps):

Forze Idrauliche Liguria


Ma le O.E.G., che nel frattempo avevano anche "inglobato" la "Società Genovese di Elettricità" (fondata nel 1891 come società "collaterale" dell' Acquedotto De Ferrari-Galliera), volevano sottolineare la loro "potenza" anche architettonicamente ed il fabbricato che ospitava le caldaie ed i generatori era, per quei tempi (ed ancora oggi) bellissimo, molto razionale ed impreziosito esternamente lungo tutto il suo perimetro, per ogni suo settore, dai nomi di trentadue esponenti "storici" della scoperta e dell'evoluzione dell'elettricità: Edison, Galileo Ferraris, Wheatstone, Cavendish, Thomson, Oersted, Coulomb, Ampère, Ohm, Joule, Maxwell, Helmholtz, Weber, Kirchoff, Pacinotti, Jacobi, Felici, Hopkinson, Henry, Nobili, Gramme, Franklin, Hefner Alteneck, Gaulard, Ewing, Davy, Beccaria, Arago, Hertz, Melloni e Siemens.

Forze Idrauliche Liguria

Lo stesso luogo oggi (Google Maps):

Forze Idrauliche Liguria

L'intero complesso oggi (Google Hearts):

Forze Idrauliche Liguria


Una piccola curiosità: nel 1902 un giovane (17 anni) genovese, appena diplomato all'Accademia Ligustica delle Belle Arti, fu assunto dalle O.E.G. come disegnatore e vi lavorò per qualche anno. Si chiamava Gilberto Govi ed aveva l'hobby del teatro.

Ma ai fini della nostra narrazione non interessano, pur se molto interessanti, le vicende storiche delle O.E.G. fino al 1963 quando, con la nazionalizzazione dell'energia elettrica, furono "assorbite" dalla neonata ENEL. Basterà dire che, nel tempo, la centrale di via Canevari fu modificata in centrale di trasformazione e che ancora oggi nel locale dove c'erano i generatori ci sono trasformatori che, alimentati da una linea esterna di corrente elettrica a 30.000 Volts, la trasformano in voltaggi minori e la distribuiscono alla città. La ciminiera è stata demolita ed i fabbricati di servizio, ceduti dall'Enel al Comune, sono oggi adibiti a sede di servizi per la città (Vigili Urbani, Protezione Civile, Associazioni del Terzo Settore e similari).
Quello che ci interessa è quello che avvenne a partire dal 1916 quando, il 27 Ottobre, quella famosa concessione rilasciata dalla Prefettura di Alessandria dieci anni prima alle Forze Idrauliche della Liguria per la realizzazione della Diga di Ortiglieto, fu "girata" alle O.E.G.

... praticamente un lavandino.

Il paragone è azzardato (non ce ne vogliano gli addetti ai lavori; questo è un articolo divulgativo, non scientifico) ma -fondamentalmente- un impianto idroelettrico funziona allo stesso modo di una vasca da bagno o di un lavandino.
C'è un rubinetto (che è il fiume od il torrente che fornisce l'acqua), c'è uno scarico (il buco in fondo. Nelle dighe ce ne sono addirittura due: lo scarico di fondo e lo scarico profondo) e c'è uno scarico di sicurezza, il cosidetto "troppo pieno", che se lo scarico si ottura provvede a scaricare l'acqua in eccesso per evitare che "strabordi" dal lavandino (e nelle dighe di "troppo pieni" ce ne sono sempre due: lo scivolo a stramazzo e gli scaricatori, solitamente a sifone). Nella foto sotto gli scarichi (di fondo e profondo) della diga di Ortiglieto in funzione:

Scarico di fondo

La differenza principale tra un lavandino ed un impianto idroelettrico è che il rubinetto (il fiume od il torrente) non si può chiudere e, quindi, l'acqua continua sempre ad accumularsi e, pertanto, bisogna adottare gli accorgimenti adatti per cui, una volta riempito il "lavandino", cioè il lago, della giusta quantità d'acqua, bisogna fare in modo che essa rimanga tale. A questo scopo, nelle dighe, gli scarichi (di fondo e profondo) vengono aperti e chiusi a seconda della quantità d'acqua contenuta nel lago. Questo serve per fare in modo che il livello dell'invaso (lago) sia sempre superiore al livello in cui sono posizionate le "prese", cioè i dispositivi che "prelevano" l'acqua dal lago e, tramite apposite tubazioni dette "condotte forzate", la portano alla centrale elettrica dove servirà per "far girare" le turbine ed i generatori. Qui sotto la condotta forzata della diga di Ortiglieto:

Condotta Forzata

Le condotte forzate non utilizzano pompe per "obbligare" l'acqua a scorrere, ma usano due tipi di energia combinati tra di loro. Il primo è la cosidetta "energia potenziale", che è rappresentata dal "peso" (e, quindi, dalla pressione) del volume d'acqua contenuto nel bacino (più acqua c'è, più pressione viene esercitata); il secondo è la cosidetta "energia cinetica", cioè l'effetto gravitazionale. In effetti, le condotte forzate sono tutte costruite "in discesa" ed è proprio la forza di gravità (unita alla spinta del peso dell'acqua contenuta nel lago) che consente all'acqua di giungere in fondo alle condotte ad una pressione altissima ed utile per azionare al meglio le turbine della centrale. E' intuitivo, quindi, che le centrali degli impianti idroelettrici sono sempre poste a qualche chilometro di distanza dalla diga e ad un livello di altezza inferiore. Le centrali, inoltre, sono sempre ubicate in prossimità dello stesso corso d'acqua che alimenta il bacino; questo serve per poter "restituire", dopo l'utilizzo, l'acqua al fiume (o al torrente) da cui era stata prelevata. La centrale che riceveva l'acqua dal lago di Ortiglieto fu realizzata a Molare, in località Le Rocche. In occasione della tragedia del 1935 fu quasi completamente distrutta e poi ricostruita. Ancora oggi esistente e funzionante (gestita da Tirreno Power), ne vediamo qui sotto la prima versione originale:

Centrale Rocche

Negli impianti idroelettrici, oltre ai dispositivi appena visti, ce ne deve inoltre essere sempre uno di enorme importanza: il pozzo piezometrico. Questo dispositivo, che viene sistemato solitamente all'inizio delle condotte forzate (per ogni condotta ce n'è almeno uno) serve ad evitare le sovrapressioni che, per qualsiasi motivo, si dovessero verificare nella condotta. Se, ad esempio (e capita in occasioni particolari) alla centrale elettrica a valle della condotta si dovessero chiudere le paratie di presa (interrompendo il flusso dell'acqua), nella condotta si verificherebbe un repentino aumento della pressione (il cosidetto "colpo d'ariete") che potrebbe anche distruggerla. In quel caso, la sovrapressione viene "smaltita" dal pozzo piezometrico, che scarica fuori dalla condotta l'acqua pressurizzata, dando origine a quello che in gergo si chiama "fontanone", cioè un grande getto d'acqua verso l'esterno. Quest'acqua viene poi riconvogliata nel lago. Il pozzo piezometrico serve anche per "misurare" la pressione dell'acqua nella condotta. Quando la condotta non è attiva, per il principio dei vasi comunicanti, il livello dell'acqua nel pozzo è eguale al livello dell'acqua nel lago; quando la condotta funziona il livello varia e dall'entità della variazione si calcola il livello di pressione dell'acqua (quota piezometrica) all'interno della condotta. Nella foto il pozzo piezometrico della diga di Ortiglieto. Si noti al centro, immersa nell'acqua, la scala graduata indicante la quota piezometrica.

Pozzo Piezometrico


1916 - la "nuova" diga di Ortiglieto.

Abbiamo già citato le motivazioni che nel 1906 avevano spinto la società Forze Idrauliche della Liguria a chiedere la concessione per la costruzione della diga di Ortiglieto. I ritardi che si erano accumulati nei seguenti dieci anni avevano notevolmente "indisposto" la società, che aveva dovuto "mediare" a lungo con i territori locali per addivenire ad un accordo che stentava a concretizzarsi. Nel frattempo la richiesta di energia elettrica era cresciuta enormemente e l'empasse stava diventando oltremodo penalizzante.
Nel 1916 alle Forze Idrauliche della Liguria subentrarono le O.E.G., che rilevarono il progetto e, forti della loro potenza economica e contrattuale, riuscirono a farsi "girare" la concessione dalla Prefettura di Alessandria, che superò senza battere ciglio tutte le obiezioni e le controversie precedenti.
Il progetto dello Zunini era sempre molto valido ma, purtroppo, le potenzialità dell'impianto da lui previsto erano troppo basse per soddisfare le esigenze delle accresciute necessità di energia elettrica presentate dal mercato. E così, a capo del progetto venne posto l'Ing. Gianfranceschi il quale, pur avvalendosi della consulenza dello Zunini, decise di "aggiornare" il progetto originale per "adeguarlo" e, per prima cosa, la decisione fu che era necessario realizzare un bacino (lago) più grande per avere più "energia potenziale" e, di conseguenza, più corrente elettrica prodotta.
Gli ultimi anni del Primo Conflitto Mondiale rallentarono l'operazione, ma tra il 1918 ed il 1920 la progettazione ripartì velocemente e, nel 1921, con grande sospiro di sollievo dei capi delle O.E.G., finalmente iniziarono i lavori. Nelle illustrazioni: prospetto da monte e prospetto da valle:

Prospetto monte

Prospetto valle

Le "modifiche" attuate da Gianfranceschi al progetto dello Zunini non furono eclatanti; in fondo, per avere un bacino più grande era sufficiente aumentare l'altezza della diga. Un gioco da ragazzi. E, in effetti, Gianfranceschi prese il progetto della diga dello Zunini e lo "alzò" di quattordici metri; in questo modo quasi si triplicava il volume dell'invaso (da otto a diciotto milioni di metri cubi d'acqua). E questo fu il primo, madornale, errore.
Con l'innalzamento del livello del lago, ovviamente, miglioravano anche le prestazioni dell'impianto poichè l'erogazione dell'acqua passava da 1300 litri al secondo a venticinquemila e la potenza elettrica passava da 2411 Hp (cavalli-vapore, pari a 1772 kW) a 24mila Hp, pari a 17.640 kW (dieci volte la potenza erogata dal progetto Zunini).
L'innalzamento del livello dell'invaso, però, portava un nuovo problema. In effetti, in un punto del perimetro del nuovo lago, c'era un avvallamento ("Sella Zerbino") da cui l'acqua sarebbe fuoriuscita. L'Ing. Zunini, che conosceva la zona, propose di realizzare in quella posizione uno sbarramento con sfioratore (l'acqua in eccesso sul nuovo livello del lago sarebbe fuoriuscita naturalmente passandoci sopra e "scivolando" oltre); per fare ciò si sarebbero dovuti fare campionamenti ed analisi del terreno e la realizzazione dello sfioratore prevedeva una progettazione abbastanza accurata. Gianfranceschi, che aveva il fiato dei capi delle O.E.G. sul collo per fare più presto possibile, decise che sarebbe stato sufficiente uno sbarramento semplice, cioè una piccola diga, senza alcun dispositivo di sicurezza. Allo smaltimento dell'acqua in eccesso nel lago ci avrebbero pensato gli scarichi della diga principale. Inoltre, la costruzione di uno sbarramento "semplice" avrebbe permesso di raggiungere la diga, da Molare, con una strada (che correva sullo sbarramento stesso) in modo assai più agevole. Questo fu il secondo, tragico, errore. Nella foto sotto, lo sbarramento di Sella Zerbino:

Sella Zerbino

La fretta, si sa, è una pessima consigliera e, in effetti, le O.E.G. avevano una tremenda premura di ultimare la diga (se non la faccio io, prima o poi la farà qualcun'altro) e di iniziare a produrre (e, ovviamente, vendere e, quindi, guadagnare) corrente elettrica. Fu quindi a causa di quella fretta che, in fase di progettazione, si saltarono due procedure che sono obbligatorie quando si progetta un impianto idroelettrico: lo studio sull'andamento delle piene del torrente (e dei suoi affluenti) e l'analisi delle precipitazioni atmosferiche nella zona a monte dell'invaso.
Per fare queste analisi sul bacino dell'Orba, in assenza di dati scientificamente misurati negli anni precedenti, si sarebbe dovuto impiegare almeno un anno di tempo, installando pluviometri e sistemi di misurazione complessi e costosi, provvedendo ad un monitoraggio costante. Ci voleva troppo tempo, troppo impegno e troppi soldi; gli studi non si fecero. D'altra parte, sulla base dell'esperienza degli abitanti della zona, non si avevano notizie di piene disastrose nè di "bombe d'acqua" verificatesi nei decenni precedenti. I ruscelli afferenti al torrente erano asciutti nella maggior parte dell'anno e la convivenza del territorio con il torrente era nella norma; d'altra parte, i fenomeni meteorologici "estremi" sull'Appennino Ligure-Piemontese sono roba che a quell'epoca poteva verificarsi -forse- una volta ogni vent'anni; solamente da qualche decennio ad oggi si sono intensificati al punto di verificarsi anche più volte all'anno (e le alluvioni degli anni scorsi ne sono la testimonianza).
Una "chicca" in più: nella diga pricipale le O.E.G. installarono, come scarico di "troppo pieno", quattro batterie da tre (12 in totale) di "Sifoni Heyn" autolivellanti ed autoinnescanti. Questo tipo di sifoni, ideati dall'ingegnere tedesco Werner Heyn di Amburgo, erano allora una novità assoluta che, però, non era stata ancora ben collaudata (verranno brevettati nel 1929). Le O.E.G., che erano "emanazione" della tedesca A.E.G. la quale, probabilmente, aveva contribuito agli studi di Heyn, decisero di installarli subito e, anche qui, non fu una buona idea. Nella foto i Sifoni Heyn della diga di Ortiglieto in funzione:

Sifoni Heyn

Quei sifoni, che promettevano meraviglie, in condizioni critiche andavano malissimo ed il 13 Agosto 1935 contribuirono anch'essi alla tragedia. Nel 2012, proprio a seguito di un rinnovato interesse da parte degli addetti ai lavori nei confronti degli avvenimenti di Ortiglieto, un accurato studio sperimentale dell'Università di Pavia ha dimostrato che i dodici sifoni Heyn della diga di Ortiglieto entrarono in funzione solo parzialmente ed arrivarono alla capacità di scarico totale solamente quando il livello del lago già sormontava la diga (cioè vi passava sopra). Siete addetti ai lavori e volete leggere la relazione tecnica sperimentale completa? La trovate QUI. Buon divertimento.
Ma andiamo adesso ad esaminare i due, colossali, errori a cui abbiamo accennato prima.

Due errori catastrofici.

La diga fu, abbiamo detto, "alzata" di quattordici metri e la capienza del bacino fu portata a diciotto milioni di metri cubi d'acqua. Tenendo presente che un metro cubo d'acqua corrisponde a mille litri, un litro d'acqua pesa approssimativamente un chilo e la diga era alta 47 metri, dai necessari calcoli risulta che alla base della diga la pressione idrostatica esercitata dall'acqua sulla struttura era di 1.104.877,813 (unmilionecentoquattromilaottocentosettantasettevirgolaottocentotredici) chilogrammi ogni metro quadrato.
Chi progetta dighe sa perfettamente che la pressione idrostatica è la componente fondamentale per la realizzazione di strutture che possano sopportare pressioni anche di decine (e centinaia) di volte superiori a quelle effettivamente richieste. Lo Zunini, che era uno dei maggiori esperti europei, la progettò in modo egregio, tant'è vero che la diga di Ortiglieto è ancora al suo posto (come quella del Vajont, che resistette a pressioni migliaia di volte superiori) ma, ovviamente, dimensionò gli scarichi (scarico di fondo e scarico profondo) per un bacino che avrebbe dovuto essere grande un terzo rispetto a quello "maggiorato" dal Gianfranceschi, il quale alzò la diga ma NON ridimensionò gli scarichi, che rimasero quelli previsti da Zunini.
La conseguenza fu che quando, durante le prove di riempimento dell'invaso, si raggiunse un livello d'acqua superiore a quello previsto dallo Zunini, lo scarico di fondo (che è solitamente costituito da due paratie che vengono aperte (sollevate) in sequenza) diede grossi problemi di funzionamento poichè la pressione dell'acqua in uscita era tale che creava forti vibrazioni in tutta la struttura. Fu subito chiaro che quella specie di mini-terremoto artificiale avrebbe potuto compromettere la stabilità di tutta la diga (e, fors'anche, causarne il crollo).
Che fare? Per risolvere il problema si sarebbero dovuti riprogettare gli scarichi, demolire parzialmente la diga (che ormai era quasi completata), realizzare i nuovi scarichi e ricostruire parzialmente la diga. Ci sarebbero voluti anni di lavoro (ed un sacco di soldi), eventualità che fece rizzare i capelli in testa ai capi delle O.E.G. i quali, alla fine, presero una decisione tragica: lo scarico di fondo non si sarebbe dovuto aprire MAI, neppure nelle situazioni più estreme. Questo fu l'ordine che le O.E.G. diedero agli operai addetti alla gestione dell'impianto. E così fu, anche il 13 Agosto 1935.

La realizzazione dello sbarramento secondario di "Sella Zerbino" fu il secondo (e fondamentale) tragico errore che causò la tragedia del 1935.
Abbiamo detto che l'Ing. Zunini aveva proposto uno sbarramento dotato di sfioratore ma che la soluzione adottata dalle O.E.G. fu quella di erigere uno sbarramento semplice, non dotato di dispositivi di sicurezza. Già questa fu una decisione che si rivelò sbagliata, ma che divenne poi tragica poiché nessuno tenne conto delle caratteristiche del terreno su cui venne eretto lo sbarramento. In effetti, l'acqua che "straborda" da uno sfioratore viene "accompagnata" a valle tramite uno "scivolo" mentre l'acqua che straborda da uno sbarramento semplice "cade" dritta alla base esterna dello stesso, formando la cosidetta "lama di stramazzo". Poiché "gutta cavat lapidem", se il terreno alla base dello sbarramento non presenta caratteristiche di solidità tali da resistere all'urto della cascata d'acqua, tale terreno si sgretola e, ovviamente, viene a mancare la base di sostegno allo sbarramento stesso.
Il terreno della sella Zerbino era molto differente da quello su cui era stata eretta la diga principale; era composto da materiale friabile e permeabile all'acqua, ma le O.E.G. avevano premura e non si potevano permettere di perdere tempo per fare campionamenti e carotaggi. Lo sbarramento, progettato anche abbastanza bene, venne quindi rapidamente costruito ma il problema del terreno sottostante si presentò subito, poiché, a lago riempito, iniziarono a verificarsi delle perdite d'acqua proprio alla base dello sbarramento. Per risolvere il problema si sarebbe dovuto demolire lo sbarramento, "sbancare" la sella fino a raggiungere un terreno roccioso e solido, progettare un nuovo sbarramento (molto più alto del precedente) e costruirlo. Tempo e soldi che le O.E.G. non si potevano permettere di perdere, proprio adesso che l'impianto era praticamente terminato.
La soluzione adottata fu di effettuare "iniezioni" di calcestruzzo alla base dello sbarramento, iniezioni che risolvevano il problema in un punto mentre l'acqua cominciava ad uscire in un altro punto. Ma non si poteva vanificare uno sforzo industriale di tali dimensioni (e redditività) per uno stupido sbarramento che perdeva. Quindi avanti così, con le iniezioni di calcestruzzo che durarono fino al 1935 quando, il 13 Agosto, lo sbarramento crollò.

L'impianto Idroelettrico di Ortiglieto.

Nel 1925, dopo quasi trent'anni dalla prima stesura del progetto, finalmente, dopo aver "brillantemente" risolto le problematiche che si erano presentate, le O.E.G. poterono ufficialmente mettere in funzione l'impianto idroelettrico, che funzionò (zoppicando assai) per dieci anni. Col senno di poi, effettivamente, questa realizzazione si rivelò un fallimento poiché soli dieci anni di attività (peraltro con un livello di produttività inferiore rispetto a quanto previsto) non ne giustificarono le energie e gli investimenti effettuati. Ma fu l'esito tragico della tragedia del 13 Agosto 1935 che mise la pietra tombale su quella che, nelle intenzioni originarie di fine Ottocento, avrebbe dovuto essere una meravigliosa realizzazione dell'ingegneria idraulica. Sicuramente, se le O.E.G., affamate di profitto, non avessero avuto la frenesia di realizzare tutto, come suol dirsi, a tempo di record e, nel 1916, invece di "adattare" il vecchio progetto dello Zunini, lo avessero rifatto nuovo rispettando tutte le norme necessarie ed adottando tutte le precauzioni di sicurezza, forse -e ripetiamo forse-, la Valle dell'Orba si sarebbe risparmiata centoundici morti e l'impianto, forse -e ripetiamo forse-, sarebbe ancora attivo come centinaia di impianti realizzati all'epoca in Italia e che ancora oggi, bene o male, continuano a svolgere il loro lavoro (le centrali idroelettriche italiane oggi attive sono 4.860 e forniscono oltre il 45% dell'elettricità nazionale). Ma del senno di poi sono piene le fosse (e qui per "fosse" si intendono le tombe).
In ogni caso, l'impianto idroelettrico di Ortiglieto era, per quei tempi, abbastanza "spettacolare" non solo per le (presunte) innovative caratteristiche tecnologiche ma, anche, per l'impatto sul territorio. Qui sotto potete vedere il corso del torrente Orba in località Ortiglieto prima della costruzione delle diga.

Forze Idrauliche Liguria

Questo è lo stesso luogo occupato dal lago artificiale:

Forze Idrauliche Liguria

L'impianto di Ortiglieto, come abbiamo detto in apertura, faceva parte di un "percorso elettrico" che avrebbe dovuto fornire l'energia per la linea ferroviaria Genova-Ovada-Alessandria, le cui diverse tratte prevedevano una serie di centrali di alimentazione. Si partiva dalla centrale-madre di via Canevari di Genova (l'abbiamo vista prima) per arrivare a Rossiglione, poi Ortiglieto (con la centrale di Molare-Rocche), Ovada (Centrale "dei Frati"), Roccagrimalda-Schierano e via via fino ad Alessandria.
Le O.E.G. "monitoravano" e gestivano da Genova questo percorso elettrico tramite una linea telefonica "dedicata" che seguiva il tragitto sopra citato, linea attraverso cui venivano comunicate ai vari tecnici presenti in loco le direttive da applicare. La linea telefonica funzionò anche il 13 Agosto 1935 fino al momento in cui lo sbarramento della sella Zerbino crollò (la linea vi passava sopra) e le drammatiche conversazioni di quel giorno tra Ovada-Frati, Molare-Rocche, la diga e Rossiglione, testimoniano ancora oggi la gravità di quanto accadde e l'impotenza degli uomini di fronte all'evento.
Per sapere dettagliatamente cosa accadde quel giorno a Ortiglieto, Molare ed Ovada anche grazie alla testimonianza di un addetto ai lavori che visse in prima persona, presso la Centrale dei Frati di Ovada, l'intera vicenda, andatevi a leggere il nostro articolo di quarant'anni fa. Lo trovate QUI.

Per concludere, vi proponiamo, tra i tanti presenti in rete, un bel video realizzato dal canale YouTube "Lost Structures" dedicato alla diga di Ortiglieto.